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aumentando la contribuzione di ogni individuo coinvolto in tale processo.

A cosa serve la scuola?

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Qualche anno fa, quando cominciai ad interessarmi più da vicino al tema della formazione, promossi un piccolo sondaggio tra studenti delle scuole superiori con lo scopo di raccogliere le domande che i giovani ponevano a se stessi e avrebbero voluto chiedere a chi guidava il sistema scolastico. Tra le varie, tre domande risultarono le più gettonate:

  • a cosa serve studiare ?

  • a cosa serve studiare le cose del passato ?

  • a cosa serve la cultura generale quando tutto è guidato da scienza e tecnologia ?

Dalla formulazione dei quesiti da parte dei ragazzi si possono desumere alcuni elementi importanti per interrogarsi sul presente e sul futuro.

Anzitutto, il verbo ‘servire’, insistentemente riproposto, denuncia il desiderio di comprendere la relazione tra le materie in programma e il ‘Saper Fare’: interrogarsi su quale utilità pragmatica offra lo studio del greco o del latino mal cela il sottinteso dubbio di relazione, per esempio, tra l’aoristo ottativo e un qualsiasi lavoro, mestiere o altra iniziativa concreta.

Il rigetto di una valenza diretta ed immediata tra le vicende del passato e il presente evidenzia, a mio avviso, l’assenza di una consapevolezza spazio-temporale del vivere quotidiano: il che si presta sia ad una lettura positiva, ossia la ricerca da parte dei giovani di un orientamento tra il legame del passato con il futuro, sia ad una lettura negativa, ossia l’affermazione di inutilità di tutto quello che non pertenga al presente – al più, teso al futuro – perché questa è l’unica dimensione che a loro interessa.

Il terzo quesito più ricorrente riflette lo spirito di riforma dal 1996 in poi e previene di un anno quanto poi sancito dal governo in modo esplicito nel 2015: l’affermazione del binomio scuola-lavoro. Permettetemi, però, una chiosa incidentale: se è ragionevole che per un adolescente la scienza e la tecnologia siano percepiti quali primari binari per giungere ad un lavoro nel futuro, è doveroso connotare questo concetto di lavoro come “di massa”. Nel senso che scienza e tecnologia certamente apriranno le porte al maggior numero di posti di lavoro ma, altrettanto sicuramente, non qualificano di per sé sulla qualità dello stesso né sulla sostenibilità della propria occupazione nel tempo. D’altra parte, uno dei concetti fondamentali della riforma Berlinguer (1996) – da cui ha tratto avvio la tesi del Saper Fare - è quello di «nuova professionalità», come capacità di «controllo e direzione dei processi in cui ciascuno è inserito», un concetto frutto della cultura sindacale degli anni settanta.

A voler trovare un comune denominatore tra le tre domande, credo che l’interrogativo fondamentale che ancora oggi accomuna i nostri giovani possa riassumersi così:

che relazione c’è, se esiste, tra ciò che studio e chi sono io ?

In realtà, la mano alzata degli studenti sposta la domanda di riferimento su un piano diverso: a cosa serve la scuola?

La portata generale non vuole, tuttavia, continuare a concedere spazi di vaghezza entro i quali confondere parole vuote con risposte specifiche, al pari della vacuità di contenuto che negli ultimi trenta anni ha connotato i dibattiti politici e culturali. Pertanto, la mia intenzione di provocare una diversa riflessione può essere declinata, a sua volta, in tre ambiti:

  1. Chi è il soggetto più importante nella scuola ?

  2. Verso quale scopo ultimo devono convergere insegnamento e apprendimento ?

  3. Quali componenti didattiche o pedagogiche influiscono maggiormente sul raggiungimento dello scopo ultimo ?

La mia lettura della situazione attuale può essere così riassunta nei tratti comuni, dunque con tutte le eccezioni del caso ammesse: il perno nella scuola è l’insegnante; il fine ultimo è quello di trovare un lavoro, per cui l’insegnamento deve trasmettere il maggior numero di informazioni possibili affinché ogni studente possa selezionare quelle a lui più confacenti e che dettino la strada verso un’occupazione nel più breve tempo possibile; infine, l’introduzione di esperienze di lavoro (simulate alle superiori e stage all’università) durante il percorso di studio rappresenta l’apertura a nuovi canali di apprendimento strumentali allo scopo ultimo.

A prescindere da inclinazioni culturali o politiche, ritengo che le risposte di oggi siano totalmente inadeguate perché è “falsa”, in senso scientifico, l’ipotesi di partenza, ossia che la vita, professionale e non, possa essere ascrivibile a “processi in cui ciascuno è inserito”. In altri termini, pur non condividendone la filosofia sottostante, ricondurre il vissuto tipico delle persone dei paesi sviluppati dagli anni ‘60 agli anni 2000 nell’alveo di processi comuni e ripetibili non è sbagliato: basti pensare ai connubi studio-lavoro fisso, paese in cui si cresceva e opportunità di esperienze all’estero, ambiti territoriali di vita e incroci culturali nel matrimonio. A mio parere, negli ultimi venti anni non ci si è accorti del mutamento radicale che stava giungendo: si è continuato a ritenere che malgrado la rivoluzione dell’accesso alle informazioni, la crescita demografica, la globalizzazione come fenomeno naturale e irreversibile, tutto potesse rimanere all’interno di ‘processi’ e che la vita potesse in qualche modo essere confinata e governata, nel privato e nel pubblico, da quelle che gli anglosassoni denominano policies and procedures.

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In questo senso, il Saper Fare muove da un’ipotesi falsa perché non basta aggiungere o cambiare informazioni e procedure dando maggior enfasi a scienza e tecnologia, occorre riscoprire l’Uomo e ridare ai giovani la capacità di Essere: responsabili delle proprie scelte in modo consapevole, pronti a comprendere e a reagire ai cambiamenti (che nel frattempo sono divenuti e saranno ancora sempre più repentini e ampi), dotati di un metodo che consenta loro di incrementare il proprio grado di soddisfazione nei vari contesti in cui saranno chiamati a vivere.

Su queste premesse, penso che la scuola e la formazione in generale siano i primi e più importanti spazi in cui intervenire per migliorare le condizioni di un paese e dei singoli che vi vivono.

Per quel che poco conta ma pur sempre per sollecitare le reazioni di altri, in questi anni mi appassiona l’idea che:

  1. il soggetto più importante nella scuola siano gli studenti, non nella singola individualità ma come destinatari protagonisti del sapere;

  2. insegnamento e apprendimento dovrebbero convergere nel riscoprire il sapere come valore, in quanto bacino da cui attingere per leggere il presente, imparare in qual maniera sono stati superati nel passato problemi che si ripresentano nell’oggi e trovare conoscenze utili a comporre proprie idee ed azioni da proiettare nel futuro. Così, la relazione tra studio e studente sarebbe più evidente e fruibile, mentre oggi è dai più (non a torto) percepito solo nel voto, e avrebbe una portata ben più ampia e meritoria del solo binomio scuola-lavoro;

  3. l’aggiornamento dei programmi e delle modalità di insegnamento non può essere limitato dalle conoscenze acquisite dei professori e dal metodo frontale (professore-studenti) come scusa per legittimare un nozionismo ottriato, ossia rifuggire dal confronto con gli studenti sul valore del sapere. Valgano alcuni esempi:

    1. trovo imbarazzante che nei primi 13 anni di studio ci si debba soffermare per ben tre volte sullo studio della punta amigdala dell’era paleolitica e non si arrivi mai ad approfondire la guerra del Vietnam o a studiare in profondità uno degli eventi epocali dell’età contemporanea come il percorso che portò alla caduta del muro di Berlino;

    2. i ragazzi devono essere allenati a cogliere i legami tra storia e filosofia, tra arte e matematica, tra economia e psicologia oppure tra letteratura e logica: l’interdisciplinarità deve essere applicata in maniera strutturale, non lasciata alla buona volontà del singolo docente;

    3. il protagonismo degli studenti secondo un metodo di insegnamento circolare non solo permette di fare esperienza diretta e progressiva del valore del sapere ma consente, senza grandi sforzi, di sviluppare forme di analisi critica, problem solving, lavoro di gruppo e leadership, tutte abilità che non possono più e in nessun modo essere trascurate.

Non so se la mia idea sia giusta e tanto meno la migliore ma, per ora, essa mi ha permesso di tracciare un filo conduttore tra Scuola, Persona e Benessere e, soprattutto, solo così riesco in unica soluzione a spiegarmi perché un tempo i professori godevano di un rispetto e di un’autorità sociale ormai persa del tutto ed anche perché persone che avevano potuto frequentare la scuola solo per pochi anni ma a cui era stato insegnato il valore del sapere, sono riuscite ad emergere e a fare grandi cose, continuando da soli a inseguire, senza mai smettere, nuove conoscenze.

Simone Rondelli

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Tempi di Maturità e di scelte di Università

Ascoltare i giovani per cambiare la “Scuola"