MISSION: facilitare o amplificare la capacità dell’azienda nel proporre Leadership nel cambiamento, Critical Thinking, Entrepreneurship, Complex Problem Solving,
aumentando la contribuzione di ogni individuo coinvolto in tale processo.

Alterità e Capitalismo

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Le vicende politiche e sociali che da anni continuano a riempire le pagine di giornale (… e la bocca di tutti…) testimoniano che l’economia è diventata, a torto o ragione, il centro di ogni dimensione umana: la politica “guarda” all’economia (e non più viceversa), lo sport dipende dalla dimensione economica sottostante, le diseguaglianze sociali sono misurate solo in termini economici e, ahimè, spesso anche la famiglia “nasce o regge” nel tempo in funzione delle disponibilità economiche.

Pur non condividendo culturalmente il ruolo cui il sistema economico è assurto, si deve prendere atto che così è e da questo presupposto, insoddisfacente per molti, occorre muovere per immaginare come poter stare meglio in futuro.

Oggi gli economisti propongono soluzioni diverse per i tanti problemi del mondo, ma è veramente difficile discernere la strada più appropriata non solo perché è complesso identificare il punto da cui riprendere il bandolo della matassa, ma anche perché pressoché ogni analisi economica esita ad introdurre, con onestà intellettuale, l’etica tra i parametri di misura e, conseguentemente, risulta impossibile percepire gli effetti delle nuove proposte sugli ambiti di vita non strettamente economici ma che da esse dipendono.

Un economista con cui, a mio parere, vale sempre la pena confrontarsi è Joseph E. Stiglitz (premio Nobel per l’economia nel 2001). Pochi mesi fa Stiglitz ha rilasciato un’intervista al New York Times (https://www.nytimes.com/2019/04/19/opinion/sunday/progressive-capitalism.html) che invito tutti a leggere perché mette in evidenzia la necessità di rivedere urgentemente le direttrici del capitalismo proprio per garantirne una sopravvivenza reale, combinando il profilo sia tecnico-economico sia quello etico.

Mi sento in piena sintonia con la posizione di Stiglitz quando invoca un capitalismo che recuperi la dimensione dell’uomo e del benessere oltre il profitto, quando combatte l’idea che il sistema economico possa reggere a lungo se le disuguaglianze continuano ad amplificarsi e altrettanto quando auspica che la “fantasia neoliberista” venga messa a tacere.

Tuttavia, credo che prima di esplorare ogni teoria, di Stiglitz o di altri, occorra considerare il rapporto tra l’uno e la collettività quale chiave di lettura dell’annosa dialettica economica e politica tra interventismo/assistenzialismo di impronta socialista e il ruolo dello Stato secondo le teorie liberali e liberiste. In particolare, penso sia essenziale cogliere una sottile ma decisiva comunanza di entrambi i poli: in nessun caso si prospetta una responsabilità del singolo verso gli altri. Nell’un caso, è lo Stato che si deve far carico della collettività e di chi si giudica essere più bisognoso, mentre nell’idea liberale o liberista, essenzialmente, ognuno deve far da sé e l’ambito di azione dello Stato dovrebbe concentrarsi nello stabilire le “(meglio se poche) regole del gioco” e poi rendersi arbitro di eventuali violazioni dirette e specifiche.

Tra guerra fredda, movimenti sessantottini, deregulation, neoliberismo e la supremazia della finanza, esiste un comune denominatore che qui rileva: tutti hanno avanzato le proprie proposte in nome della libertà, ma nessuno ha dato riscontro del ruolo del prossimo nel progresso della società e, tantomeno, ipotizzato l’essenzialità dell’altro da sé per affermare il principio stesso di libertà e le tesi politiche ed economiche conseguenti.

Così, quando Stiglitz propone un “capitalismo progressista”, in cui lo Stato investe dove il mercato non arriva, governa il mercato per impedire che singoli individui possano “arricchirsi sfruttando gli altri …” e fa il possibile per “recidere il collegamento tra potere economico e influenza politica“, ricorre ad attori e categorie del pensiero riconducibili ancora una volta alla tradizionale dicotomia tra socialismo e liberismo, le quali non ritengo, sommessamente, siano in grado da sole di superare l’impasse cui siamo giunti e proiettarci verso una strada nuova.

Tanto lo Stato quanto il mercato non possono essere equidistanti da ciascun individuo né tampoco tutelarne o favorirne gli interessi in modo equanime per il semplice motivo che sia lo Stato sia il mercato sono in realtà rappresentati da un numero di persone infinitesimale rispetto al totale degli esseri umani. La stessa teoria sull’asimmetria informativa che ha portato Stiglitz al Nobel mostra in modo inequivocabile l’impossibilità di poter fare affidamento su autorità o mercato in maniera uguale per tutti.

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Sulla scorta della storia dal secondo dopoguerra fino agli anni ‘80, la caduta del muro di Berlino, l’apertura ad un capitalismo controllato da parte di Russia e Cina e l’abrogazione del Glass Steagal Act (la legge che imponeva assoluta separazione tra banche commerciali e banche d’investimento/d’affari) in America hanno, più di ogni altro evento, sancito l’insostenibilità del socialismo reale, la morte delle ideologie e degli ideali come forza motrice della politica e l’apertura al capitalismo finanziario, caratterizzato dall’elevazione della ricchezza economica ad ideologia di massa e dalla ricerca di ricchezza nella rendita più che dalla sua effettiva creazione, per dirla con Stiglitz.

Eppure i nostri tempi chiedono a gran voce un nuovo cambiamento radicale. Al riguardo, penso – come ormai avrete capito - che il fulcro del cambiamento debba essere il recupero della Persona sia come valore, sia come rispetto della dignità di ognuno (nessuno escluso) sia, però, anche come assunzione di responsabilità di ciascuno verso sé e chi lo circonda. L’insostenibilità del socialismo reale è un fatto incontrovertibile perché questo contemplava l’annullamento della persona, circostanza oggettivamente inaccettabile dall’uomo stesso; recuperare un pensiero d’insieme, che sappia legare le ragioni delle diverse scelte politiche e consenta ai cittadini di giudicarne l’identità in cui ritrovarsi come persona, sarà un passaggio prima o poi necessario (ma su questo tornerò); quanto alla dimensione economica in senso stretto, l’individualismo estremo cui siamo giunti si scontra, con forza non più ignorabile, con la fattuale necessità di convivenza tra persone che negli anni sono però state spinte su piani molto disuguali.

Dal mio punto di vista, ciò che è successo e dove stiamo può essere rappresentato con il mutamento di una formula che sintetizza il concetto di libero mercato. Siamo passati da una definizione di libero mercato quale

Spazio economico in cui TUTTI possono massimizzare il proprio BENESSERE

ad un’articolazione profondamente diversa in cui il libero mercato è divenuto

Spazio economico in cui OGNUNO può massimizzare il proprio PROFITTO

È chiaro, dunque, il duplice cambiamento: da un lato la dimensione del mercato è passata dal dover contemplare TUTTI ad una concezione (una specie di Far West) dove CIASCUN PER SÉ e non c’è neanche più Dio per tutti; dall’altro, il fine ultimo cui si presta il libero mercato si è ristretto dal BENESSERE, in cui convergono tanti aspetti umani e certamente non solo la ricchezza, al solo PROFITTO, che ha assunto sempre più una connotazione finanziaria anche per le aziende industriali a scapito del risultato utile per aver creato reale valore.

Così si spiega la legittimazione sociale e giuridica del profitto a danno degli altri di cui sarebbe facile riempire un elenco di esempi guardando solo agli ultimi venti anni; così è facile ritrovare le fonti di disuguaglianza sociale ed economica che non sono il frutto della sacrosanta concorrenza ma dello sfruttamento dell’altro consentito da un’economia che si misura sulla somma di ricchezze individuali e perde il senso della distribuzione del totale perché il numero di effettivi partecipanti al mercato ha perso ogni significato; così anche trova spiegazione perché il benessere complessivo, che non può essere costituito dal solo danaro per la natura medesima dell’essere umano, è in forte diminuzione proprio nei paesi occidentali.

Uno spazio economico in cui TUTTI possono essere protagonisti impedisce che OGNUNO sia legittimato ad escludere alcuni dall’agone: al contrario, l’esempio dei finanziamenti subprime che hanno innescato la grande crisi del 2008 basta a circostanziare un sistema che ha creato danni incommensurabili per milioni di persone senza aver commesso illeciti civili o penali. Oltre alla dimensione soggettiva, la concentrazione teleologica del libero mercato al solo PROFITTO ha cavalcato un concetto di Libertà in cui l’Altro è un ostacolo e ha fatto perdere una dimensione collettiva che costa, per esempio, tanto i problemi climatici quanto quelli occupazionali oggi in cima alle priorità mondiali.

In questo senso, non solo comprendo e apprezzo il richiamo di Stiglitz al ritorno ad un capitalismo che recuperi anche la collettività tra i soggetti centrali del sistema economico e al recupero del Benessere come metro di misura dell’economia, ma accolgo con favore la risoluzione della Business Roundtable, un’associazione degli amministratori delegati delle principali multinazionali americane, che il 19 agosto scorso ha chiaramente affermato la necessità di una discontinuità, scrivendo tra l’altro:
“… Americans deserve an economy that allows each person to succeed through hard work and creativity and to lead a life of meaning and dignity. We believe the free-market system is the best means of generating good jobs, a strong and sustainable economy, innovation, a healthy environment and economic opportunity for all…

(https://www.businessroundtable.org/business-roundtable-redefines-the-purpose-of-a-corporation-to-promote-an-economy-that-serves-all-americans)

L’aspetto, tuttavia, che per me rimane centrale e che rimane spesso inevaso è il ruolo del singolo verso la collettività. Quando si parla di TUTTI si rischia o l’appiglio socialista allo Stato o la vacuità del richiamo alla mai definibile ‘società’. Senza esplicita responsabilità dell’individuo verso l’Altro da sé, a mio parere, si rimane impantanati in un melma in cui poco può cambiare e, soprattutto, in cui nel tempo il grado di deterioramento può incrementare.

Convinto che la centralità del prossimo sia il miglior viatico per l’aumento del proprio benessere (Prossimo e Successo), penso, provocatoriamente, che anche il sistema economico generale debba incorporare l’alterità come fattore endogeno strutturale. Rimanendo sul piano economico, in concreto il cambiamento può avvenire se le affermazioni di principio della Business Roundtable divengono un effettivo nuovo modus operandi di ogni operatore (non solo americano) nel quale ciascuno, dall’azionista all’ultimo dipendente, pone l’accrescimento di chi lo circonda come componente intrinseca della propria crescita.

In questo modo il libero mercato potrebbe diventare lo

Spazio economico in cui CIASCUNO può massimizzare il proprio BENESSERE nell’INTERESSE SIMULTANEO DI SE STESSO E DI CHI LO CIRCONDA

L’estensione anche al singolo individuo, insieme allo Stato e al mercato, della responsabilità del sistema economico consentirebbe di superare i limiti del passato e di dare nuova linfa ad una ricerca del benessere in cui nessuno è escluso, in cui si preservano i benefici della libera concorrenza e in cui le diseguaglianze verrebbero automaticamente calmierate e diminuite perché tutti sarebbero protagonisti della crescita. In altre parole, porre al centro il prossimo crea un circolo virtuoso in cui si evitano per definizione, su larga scala, fenomeni di esclusione e sopraffazione e si moltiplicherebbero i partecipanti ad una reale creazione di valore.

Non mi sfugge, per converso, che introdurre la centralità del prossimo nella logica economica comporterebbe la rivisitazione di una lunga serie di metriche e fondamenti organizzativi: dalla leadership alla meritocrazia, dalla produttività alla profittabilità dovrebbero mutare di significato, o meglio gli elementi di contenuto. Non si può negare, infatti, che uscire dal Far West del profitto comporta quasi certamente ridurre le aspettative di utili nel breve periodo. E quindi, cinicamente, dove starebbe il vantaggio economico che pur sempre nel profitto trova la componente costitutiva primaria? Tecnicamente, ritengo che i vantaggi più rilevanti siano due: il primo è la riduzione di volatilità e il secondo, come detto, è la creazione di un ambiente capace di moltiplicare la capacità di creazione di valore.

Il contesto attuale permette tanto picchi di profitto elevati nei periodi di espansione economica quanto crolli vertiginosi in momenti congiunturali meno favorevoli: questa volatilità poggia fondamentalmente sul distacco tra gli interessi del singolo operatore e quelli di coloro che partecipano al “suo” mercato di riferimento (clienti, dipendenti, fornitori, concorrenti ecc). Nokia è passata in due anni da leader mondiale a società pseudo-fallita in nome proprio di questa dicotomia; diversamente, molte aziende sono fallite nel post-crisi 2008 per un’eccessiva sottocapitalizzazione dovuta alla reticenza degli azionisti di investire parte della ricchezza accumulata in nome di un rilancio aziendale, che, peraltro, avrebbe preservato anche posti di lavoro e indotti economici.

Quando si osserva il settore bancario, uno dei problemi maggiori dell’ultimo decennio risiede nel numero di dipendenti che per lungo tempo sono stati impiegati secondo una logica di applicazione di procedure rispetto a linee di business ora non più redditizie o addirittura necessarie. Il dilemma tra licenziamenti, scivoli pensionistici e riqualificazione professionale, affinché i medesimi dipendenti possano trovare valore nell’equazione aziendale, discende dal fatto che gli istituti bancari per moltissimi anni hanno negletto l’interesse dei dipendenti ad avere la possibilità di partecipare ad una reale creazione di valore.

In questa prospettiva, l’introduzione dell’alterità come parte integrante del sistema economico consentirebbe, da un lato, utili forse minori ma meno volatili e più stabili, favorendo una maggior crescita nel lungo periodo e, dall’altro, una propagazione di capacità di creazione di valore proporzionale al numero di “altri da sé” inclusi nella accrescimento di benessere.

Ma il vero beneficio dell’auspicato cambiamento risiederebbe nel rafforzare la possibilità che perduri un’economia di mercato e non si sfoci, invece, in un conclamato oligopolio, i cui prodromi sono già ora riconoscibili, che nel medio-lungo termine non può che portare ad un peggioramento delle generali condizioni di vita.

Simone Rondelli

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Le Tasse hanno due facce

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