MISSION: facilitare o amplificare la capacità dell’azienda nel proporre Leadership nel cambiamento, Critical Thinking, Entrepreneurship, Complex Problem Solving,
aumentando la contribuzione di ogni individuo coinvolto in tale processo.

Il bicchiere mezzo pieno

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Mai come oggi abbiamo contezza dell’espressione latina mala tempora currunt. È un fatto: centinaia di migliaia di morti in poche settimane, milioni di persone stanno perdendo il lavoro, molti più subiranno comunque un income shock tale da dover lottare per sopravvivere. A queste si sommano le moltitudini di disagi di cui non si parla: dalle tensioni all’interno delle famiglie alle gravi difficoltà del sistema scolastico, per citare solo alcuni esempi.

Non si deve, inoltre, ignorare come la pandemia stia segnando la vita dell’intero pianeta: nei soli due mesi di “reclusione domestica”, gli animali selvatici stanno riconquistando spazi a loro proibiti da tempo immemore (le aquile sono tornate a volare sopra Milano!) e le differenze di inquinamento ambientale sono violentemente palesi. Colpisce l’ammonimento che la Natura sta inviando all’Uomo: dopo secoli di sviluppo e progresso industriale e tecnologico, flora e fauna ci inviano un messaggio (e non per via digitale) a ricordarci che entrambe sono sempre pronte ad affermare la propria presenza.

Tuttavia, l’attenzione deve essere rivolta a che non arrivino tempi peggiori, come recita il prosieguo dell’adagio latino (sed peiora parantur). Veniamo da decenni di storia all’insegna di un combinato tra individualismo sfrenato e relativismo imperante che hanno generato importanti disuguaglianze sociali, prima ancora che economiche, e un depauperamento culturale che rischiano di acuirsi fino alla rivolta, per ragioni di sussistenza, e, ancor peggio, all’abbandono del desiderio di vivere con entusiasmo, così spalancando le porte al buio umano del Medio Evo anche se con tecnologie avanzate.

Insomma, occorre riconoscere che esiste il rischio che il bicchiere appaia oggettivamente vuoto.

A fronte di questo rischio, c’è chi si affida all’operosità (a volte aiutata anche dell’ingegnosità) congenita per difendere – con aspettative senza segno - il proprio piccolo o grande orto, chi è sopraffatto dal disfattismo ed è rassegnato a prossime guerre o carestie e i più che, muovendo da una posizione ancora dignitosa, si preparano ad affrontare il quotidiano per come si presenterà di giorno in giorno ed in coerenza con tutto quanto li ha accompagnati fino ad oggi (incluso nobili cause di solidarietà) ma ritengono impossibile intravedere in questi tempi l’occasione di una “nuova e migliore ripartenza”. Seppur esigua, vi è, nondimeno, una parte del mondo che intravede uno spiraglio di cauto ottimismo ed io mi schiero con loro!

Veniamo però al concreto. Dove si trova la fonte dell’ottimismo? E in cosa si traduce?

A mio parere, il bicchiere che appare vuoto si riempie (senza esagerare, fino a metà) al ricorrere di due condizioni: memoria storica e centralità dell’Altro da sé, a partire -oggi come mai io abbia memoria (non ho vissuto l’immediato dopoguerra) - da chi ha più bisogno.

Gli ultimi commenti di Mattia e Giorgio all’articolo precedente toccano, tra l’altro e in modo diverso, un punto cruciale: la memoria storica e critica, nel senso di far tesoro di quanto accaduto nel passato per mettere in evidenza in modo costruttivo quali cambiamenti potrebbero giovare in futuro. Se, viceversa, non riusciamo mai a ricordare e discernere gli eventi passati oppure, peggio mi sento, attribuiamo al recente passato meriti tali da auspicarne il perdurare solo per mascherare l’incapacità di pensiero/di assumerci responsabilità di cambiamento, il bicchiere difficilmente si riempirà, anche solo in parte.

La memoria storica costa sacrificio, sia per lo sforzo di documentazione e di tener vivo il ricordo sia, o forse soprattutto, per la messa in discussione dei fatti accaduti, rispetto ai quali ciascuno può trovarsi protagonista e, quando la storia non risulta propriamente premiante, dovrebbe riconoscere i propri errori per onestà intellettuale.

Qualche giorno fa, un carissimo amico mi ha trasmesso un articolo del New York Times a nome dell’Editorial Board intitolato, e focalizzato su, The America We Need, nel quale si richiama il lettore all’auspicio di un cambiamento del sistema americano in ossequio a valori ed iniziative di governo che evocano principi e scelte coraggiose compiute nel passato da Lincoln e Roosevelt, ormai purtroppo perse nel dimenticatoio ma ritenute quanto mai attuali per una riscossa dagli attuali mala tempora.

Prendo spunto proprio da una citazione dell’articolo del New York Times per collegare alla memoria storica anche l’altra condizione necessaria, la centralità dell’Altro da sé.

Liberty,” disse Roosevelt alla Convention Democratica nel 1936, “requires opportunity to make a living — a living decent according to the standard of the time, a living which gives man not only enough to live by, but something to live for.” Muovendo da questo principio, fu introdotto il diritto alla negoziazione collettiva per i lavoratori, la maggior disciplina della finanza a tutela dell’economia reale (già introdotta con il Glass Steegal Act nel 1933) e un sistema previdenziale a favore delle pensioni di anzianità e di disabilità. Lungi da me dipingere il sistema americano -di allora e tantomeno odierno- come idilliaco ma certamente questo è un interessante esempio di un pensiero che contestualizza l’interesse del singolo all’interno dell’intera comunità di appartenenza, e poi diviene azione.

Strano ma vero, ciascuno di noi è chiamato a vivere insieme ad altre persone.

Per quanto ovvia in teoria, nei fatti questa affermazione sembra riferirsi ad un pianeta diverso dalla Terra: mi riferisco all’irrilevanza – per non dire inesistenza - che l’individuo tende ad attribuire all’insieme di persone, cose, animali e piante che lo circondano, quando è chiamato a decidere le proprie azioni. La stessa indifferenza che nei giorni scorsi abbiamo visto nei cinghiali, puma, orsi, coccodrilli e scimmie mentre imperversavano nelle grandi città del mondo.

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La discriminante per affrontare i giorni a venire con ottimismo passa -ai miei occhi- attraverso la capacità delle persone di vedere ed accettare che altri esseri viventi (di genere umano, animale e vegetale) e cose inanimate li circondano e insieme ad essi formano il contesto in cui sono chiamati a vivere. “Vedere” significa riconoscere che la propria vita si svolge in un ambiente in cui sono presenti altri soggetti, mentre “Accettare” equivale a considerare che esiste una qualche relazione con tali compresenti, ossia che il proprio esistere ed agire producono e subiscono effetti rispettivamente su e da l’ambiente in cui la vita si svolge.

Senza prendere atto del contesto, l’individuo non può pensare di migliorare in modo duraturo e non estemporaneo il proprio benessere. Sarebbe come desiderare di giocare a calcio ignorando l’arbitro, i propri compagni e gli avversari: a prescindere dall’intrinseca contraddizione, verrebbe meno il divertimento.

Ora, però: Quale tipo di relazione esiste tra chi condivide il medesimo ambiente?

Le risposte possono essere molteplici e straordinariamente distanti. Per citarne solo alcune: da Nessuna Relazione (il malvivente non si ferma davanti a nulla pur di ottenere ciò che vuole), ad una Relazione diretta di subalternità opportunistica (l’Altro rileva nella misura in cui è un soggetto da manipolare al fine di indurlo a facilitare i miei benefici), o Relazione diretta “commerciale” (attendo che l’Altro mi porti un vantaggio per ricambiare o, viceversa), fino ad una Relazione di collaborativa convivenza (non ostacolo in alcun modo il cammino dell’Altro verso i suoi obiettivi e anzi mi preoccupo di agire per favorirne il raggiungimento nella misura in cui essi coincidono con i miei).

La provocazione che intendo sottoporre oggi è di allargare il novero di risposte ad una in più:

Relazione diretta di interdipendenza: dare priorità alle esigenze di chi condivide il mio stesso ambiente genera un senso di appartenenza dell’Altro al percorso verso i miei obiettivi tale per cui aumenta la velocità e stabilità nel raggiungerli e mantenerli.

Richiamando i profili dell’alterità già descritti in questo Blog, la priorità assegnata all’Altro da sé non si limita a definire la cornice entro cui insorge il desiderio di migliorare il proprio grado di soddisfazione, ma si estende alla fase in cui disegnare all’interno della cornice il percorso prima teorico (l’idea) e poi reale (progetto) verso il risultato, declinandolo in azioni puntuali. In altre parole, la centralità del prossimo è il filo conduttore, il criterio che mi accompagna tanto nel capire dove sono quanto dove voglio andare.

In questa prospettiva, la pandemia non è la causa dei brutti tempi che stiamo vivendo ma ha solo innescato un’accelerazione ad un percorso distruttivo già in atto, provocando ulteriori effetti collaterali devastanti. E allora, la memoria storica e la centralità dell’Altro da sé possono guidarci nell’identificazione rispettivamente delle cause originarie e delle soluzioni prospettiche.

Alcune ipotesi. Creare centri di supporto sia economico sia di rivalorizzazione umana per i più bisognosi è la priorità assoluta, come un’idea di Mattia che mi pare bellissima: aiutare i centri Caritas a dare tirocinio e ad aggregare i loro frequentatori in attività di lavoro “autonomo”. Aiutare le scuole nell’esercizio delle proprie attività con contributi in natura e di opera dell’ingegno (penso alle esigenze tecnologiche e di materiali sanitari per i mesi a venire); ricapitalizzare le aziende (no debito) per mantenere posti di lavoro e cercare nuove risposte alle nuove domande di mercato; finanziare nuove iniziative a (vero) favore degli anziani; prestare opera o sostegno finanziario per riscoprire o alimentare il valore del Bello così che il patrimonio artistico e culturale diventi autentico motore economico oltre che di appagamento dello spirito; riscoprire il mecenatismo di artigiani perché trovi compimento chi oggi rischia di rimanere escluso ma è portatore di conoscenze e competenze da preservare, oltre che offrire idee per i più giovani.

E a me cosa ne viene da queste iniziative?

Come minimo, pace sociale e ricostituzione delle condizioni affinché i giovani mantengano entusiasmo di vita, pensando che saranno loro a guidare il mondo quando noi poco potremmo fare o saremo soggetti deboli. È sufficiente?

Sappiamo che la politica stenterà a dare risposte concrete. Cionondimeno, a mio parere, se ciascuno per come e quel che può si preoccupa di dare beneficio a chi lo circonda, questi tempi potrebbero essere propizi ad una ripresa di enormi soddisfazioni e anche in tempi brevi poiché la reattività in periodi di crisi è sempre stata esponenziale rispetto ai periodi di diffusa prosperità.

Simone Rondelli

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Succubi dell’ignoranza

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